Il monte, la valle, le acque

Dentro confini che, osservati su una mappa, non sembrano obbedire ad alcun criterio razionale, il Comune di Baone riesce ad abbracciare quasi tutta l'area sudoccidentale del colli Euganei, dominata dalla vetta del monte Cero, miracolosamente scampata all'ingordigia dei cavatori ma non alla selvaggia invasione di antenne e tralicci metallici. Fa eccezione una esigua fascia di pendio inclusa nel territorio della limitrofa Este. A sud il territorio comunale si protende con una fascia pianeggiante dall'unghia collinare fino al canale Bisatto.
Un'altra striscia di pianura si insinua tra il monte Gemola e il Cero e, al di là dello stesso canale, si allarga nella Val Calaona, di cui però soltanto una parte ricade sotto la giurisdizione di Baone. Anche messi assieme, questi due lembi pianeggianti rappresentano poco più del venti per cento della superficie totale. È la percentuale più bassa fra tutti i comuni degli Euganei.immagine
Il rilievo è dunque il tratto morfologico peculiare di Baone o, per meglio dire, dei tre paesi di Baone, Calaone e Valle S. Giorgio, dalla cui aggregazione è nato meno di due secoli fa l'ambito comunale odierno e ai quali si è aggiunta in epoca recente la frazione di Rivadolmo. Ovvio pertanto che sia stato il monte a condizionare le forme dell'insediamento, a determinare le attività economiche, a modellare comportamenti sociali e mentalità.
Nel basso medioevo, epoca in cui compare la prima documentazione scritta su Baone (1077), Calaone (1079) e Valle, il monte era il luogo privilegiato dell'insediamento umano perché offriva quelle condizioni di sicurezza e quelle possibilità di difesa, che nel piano pedecollinari erano più difficili da realizzarsi. È significativo che tra il XII e XIII secolo sia documentata l'esistenza di strutture fortificate su quasi tutte le cime, dal monte Cero al monte Castello, dal monte Murale al Monte di Baone, fino al minuscolo monte Buso. Dei castelli che un tempo le coronavano e che in qualche caso sono stati teatro di vicende di grande rilievo basti pensare ai trovatori provenzali che ebbero ospitalità nel castello di Calaone, oggi rimangono solo pochi ruderi, ma è ragionevole pensare che un'indagine archeologica porterebbe a scoperte affascinanti. Forse potrebbero crearsi le condizioni per la realizzazione di un parco archeologico medievale, che farebbe da ponte tra i castelli di Este e Monselice, da poco restaurati.
immagineIl monte era anche il luogo del silenzio, della preghiera, dell'ascesi mistica per gli uomini e le donne che lasciavano il mondo. Esperienza, questa, assai frequente nell'età medioevale. Per questo le cime, che non si erano munite di fortificazioni, perché meno importanti strategicamente, videro fiorire monasteri ed eremi. 
E ancora. Tolta una fetta improduttiva, il monte era, ed è, risorsa economica, lo spazio agricolo in cui trovavano posto semi nativi, prati, colture legnose, boschi. Uno spazio in gran parte di sagevole, faticoso, che richiedeva continue opere di manutenzione. E ancora vivo il ricordo dei danni provocati dalle piogge più violente ai terrazzamenti del monte di Baone. Dopo un forte acquazzone si dovevano ricostruire riportandovi la terra trascinata in basso dalla violenza dell'acqua.immagine
Sui pendii collinari grama e stentata era la produzione cerealicola, ma le colture legnose davano frutti di prima qualità, richiesti anche da mercati non vicinissimi. È il caso dell'uva che per secoli costituì il prodotto che le comunità di Val di Sopra e Val di Sotto esportavano in notevoli quantità a Este, a Padova e anche a Venezia. La schiava e la palestra erano i due vitigni coltivati a Val di Sopra nell'età di mezzo. Ma il vino schiavo si produceva anche a Baone e a Calaone e i libri contabili del marchese di Ferrara — siamo nel 1424 — registrano il trasporto di "caretelli pieni di vino da Calaone a Este". Non meno importante per l'agricoltura di monte era la coltivazione dell'ulivo. Sono ancora i libri del marchese a documentarci sugli stari di "olive mandate cum someri da Calaone a Este per fare olio".
Ma la fama maggiore se la guadagnarono le saporose castagne di Calaone. "Le castagne di Calaone sono di molto grido, e tutti le desiderano" scriveva a metà del Settecento lo storico estense Antonio Angelieri. Erano così ricercate che qualche venditore privo di scrupoli spacciava per castagne doc di Calaone frutti che erano portati nella "piazza di Este da' luoghi più lontani ed alpestri delle montagne Padovane e Vicentine".
immagineRisorsa il monte lo è stato anche perché vi si cavavano le pietre con cui si costruivano le abitazioni: macigni di trachite, di riolite, ma in maggior quantità scaglia, che poteva anche essere cotta e trasformata in calce. Il più importante sito estrattivo era a Montebuso (oggi la località è più nota come Ca' Barbaro), quasi al confine con il territorio di Monselice, a brevissima distanza dal canale Bisatto, la più comoda via di comunicazione attorno ai colli. Un altro luogo di estrazione della scaglia si trovava alle estreme propaggini occidentali del monte Cero, in prossimità di Rivadolmo. Anche in questo caso era la vicinanza del Bisatto, a favorire l'attività di escavazione, che è documentata già nel secolo XV.
Per secoli e secoli il lavoro di cava ha avuto le caratteristiche di un processo lentissimo, quasi nascosto, come l'azione di un tarlo. Così era ancora nella seconda metà dell'Ottocento: tutto dipendeva dalle braccia dei cavatori, che impugnavano da secoli sempre gli stessi primitivi strumenti.
"Lo scalpello ed il piccone lavorano incessanti a staccare dalle viscere del monte il macigno. È il lavoro lento — scriveva nel 1876 Alessandro Prosdocimi nella sua esile monografia su Baone — ma continuato del tarlo. Su per quei diruti sentieri il proletario s'affanna e suda a struggere col monte i ruderi dell'età passata, onde apprestare materia a nuove costruzioni".
immagineLa documentazione fotografica degli albori del nostro secolo documenta in modo inconfutabile che fino ad allora gli effetti dell'escavazione della pietra sul paesaggio erano rimasti quasi im percettibili. Oggi invece il territorio, pur conservando la straordinaria capacità di fascinazione di un tempo, mostra molte ferite, quasi tutte dovute all'attività estrattiva. Sono ferite recenti. Risalgono al secondo dopoguerra. Ma sono ferite profonde che sembrano incapaci di rimarginarsi, come il grande squarcio aperto sotto la vetta del Cero o l'altro che alla Piombà continua ad eroderne il fianco occidentale, o la grande cava che si è mangiata metà della vetta del monte murale. Un destino ancora più triste è toccato ai rilievi più bassi e più vicini alle vie di comunicazione. La Gula, quel budino a due passi dal centro a Baone, è stata cancellata per due terzi. E solo la presenza della villa Barbaro sul versante meridionale ha impedito la completa distruzione del piccolo rilievo di monte Buso. Avviato già molti secoli fa, lo sfruttamento di questo minuscolo rilievo si è fatto più febbrile ed ingordo negli scorsi decenni: i cavatori non si sono accontentati di spianarlo, sono andati in profondità. E oggi al posto del monte c'è un lago. 
immagineIl monte dunque è stato l'elemento dominante, ma non è stato quasi mai un'isola, una realtà separata dalla pianura. Spesso ha intracciato rapporti dialettici con il piano. Un piano che, almeno per quanto concerne l'ambito comunale, era prevalentemente una valle, un'area soggetta al dominio delle acque fino a non molti secoli fa. Per la "valle di Baone" così le antiche mappe designano la palude che si estendeva tra il canale Bisatto e l'unghia collinare del monte Castello e del monte Cecilia il riscatto iniziò già nel medioevo, ma l'intervento che la trasformò in una fertile campagna fu compiuto a metà del Cinquecento con conseguenze di vasta portata per la comunità locale, che abbandonò per sempre il primitivo centro religioso ubicato sulla cima del monte. Ancor oggi il territorio mostra, nelle geometrie degli scoli e dei fossi, i segni delle opere di bonifica realizzate dai veneziani.
Intricatissima sul piano giuridico fu la vicenda della valle che si stende ad ovest del monte Cero arrivando a lambire il monte Cinto e il monte Lozzo. Fin dalla prima metà dei secolo XIII tra questa palude e la comunità di Calaone si instaurò un vincolo speciale che secoli di contestazioni, di dispute, di liti giudiziarie non sono riusciti a spezzare. Anche questa palude, "vallis piscatoria", fu investita dall'imponente opera di redenzione delle terre coordinata dalla magistratura veneziana dei Provveditori ai Beni Inculti.
Le paludi pedecollinari rinviano alle fonti che le alimentavano: le acque che scendono dal monte, scorrendo nei calti e nei rii. Nella condizione di penuria che caratterizza i colli Euganei, si può affermare che almeno a Valle S. Giorgio l'acqua ha rappresentato una risorsa significativa. Le testimonianze archeologiche dell'esistenza di un acquedotto romano sono cospicue. Condutture lapidee sono state trovate nel secolo scorso tanto in Val di Sopra quanto in Val di Sotto, da dove l'acquedotto proseguiva verso la Val Calaona costeggiando il Cero; alla Piombà avveniva l'innesto in un collettore più grande che, provenendo dalle sorgenti di immagineFaedo e Valnogaredo, proseguiva in direzione di Este passando per Rivadolmo. Pur nella esiguità e nella irregolarità della loro portata, sono stati i rii alimentati dalle sorgenti di Val di Sopra gonfiate di tanto in tanto da generose precipitazioni, a permettere l'insediamento di un mulino che è rimasto in attività per almeno cinque secoli e di cui oggi sopravvive lo scheletro delle strutture edilizie e delle sue ruote. Di altri mulini rimane soltanto il ricordo in qualche toponimo o nelle antiche carte d'archivio: è il caso del mulino natante di Rivadolmo demolito nel secolo XVI per favorire la navigazione sul Bisatto.
Per secoli e secoli questo corso d'acqua è stato la via di comunicazione più agevole e più sicura. Sul Bisatto si trasportava la scaglia estratta a monte Buso, ma anche quella scavata nei pendii occidentali del Cero tra Piombà e Rivadolmo, che documenti d'archivio citano come "il porto della scaglia". Sul Bisatto scivolavano le barche che trasportavano l'uva e la frutta di Val di Sopra e Val di Sotto. Il punto d'imbarco era alla Bomba di Cinto, la meta era Padova, ma anche Venezia.
immagineDa Padova venivano in barca i cittadini che avevano scelto i pendii collinari, popolati di vigneti, frutteti ed ulivi, come luogo di villeggiatura, desiderosi di emulare il soggiorno del Petrarca nella vicina Arquà, ma attratti altresì dalla convenienza dell'investimento fondiario. 
Alla presenza di facoltose famiglie padovane (e poi anche veneziane) si devono alcuni pregevoli episodi architettonici quali il palazzo Dottori e la Ca' Orologio a Baone, la villa Barbaro a Montebuso, la villa Mantova Benavides a Val di Sotto. Quest'ultima, oggetto di un recente restauro che ne ha consentito la fruizione pubblica, ha una storia intricata e affascinante insieme, che la vede passare dalle mani dei Guidotti a quelle di Carlo Torta, appassionato raccoglitore di antichità e cancelliere dell'Università di Padova, prima di giungere in possesso dei Mantova e ospitare fugacemente Giacomo Casanova, in visita a Bettina Gozzi, la sua prima "fiamma". Che la villa fungesse, oltre che da residenza estiva, anche da centro di un'azienda agricola è documentato dalla presenza settecentesca di un "tezzon detto pestrin", cioè di un edificio adibito a frantoio delle olive. Ed è coincidenza significativa che anche nelle adiacenze di palazzo Dottori abbia trovato posto un frantoio, visibile ancor oggi. 
Vero è che più che verso i terreni di monte le famiglie cittadine padovane indirizzarono i loro appetiti fondiari verso le fertili terre di pianura. Così, pur tra mille difficoltà, i piccoli proprietari dei terreni collinari riuscirono — come ha chiarito recentemente lo studioso Claudio Grandis — a "conservare la titolarità delle superfici produttive". Alla presenza della piccola proprietà, che nell'Ottocento tocca indici molto elevati, va ricondotta la proliferazione di fabbricati rurali, generalmente di modesta dimensione, sui declivi collinari, dove i seminativi cedono volentieri il posto al vigneto e all'oliveto.immagine
In questo incantevole scenario, dove il monte, la valle e le acque hanno recitato ruoli di peso diverso, eppure tutti importanti, si è svolta la storia millenaria di Baone, Calaone e di Valle, tre comunità che nello scorrere dei secoli hanno acquisito identità diverse, perché sono state separate da confini che oggi forse stentiamo a riconoscere, ma che in passato hanno costituito barriere fisiche e mentali quasi insormontabili. Il titolo di questo libro vuole riflettere questa realtà articolata (resa ancora più varia dalla recente crescita della comunità di Rivadolmo), per la quale piuttosto che di una storia è meglio parlare di più storie.
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