Rivadolmo e la navigazione sul Bisatto

1. Il porto della scaglia

Associare la storia di un territorio prevalentemente montuoso qual è quello oggi compreso nei confini di Baone alla presenza dei canale Bisatto può sembrare un'operazione azzardata sul piano concettuale. La modernizzazione, che negli ultimi decenni ha rivoluzionato il modo nel quale uomini e merci si muovono nello spazio, rende difficile comprendere come corsi d'acqua, anche modesti per portata e dimensione, abbiano costituito fino a non moltissimo tempo fa le più agevoli vie di trasporto. Fortunatamente a ricucire lo strappo col passato, a recuperare, frammento dopo frammento, la memoria storica ci soccorrono i documenti conservati negli archivi.
E sono numerosi i documenti che dimostrano che il Bisatto ha svolto un ruolo di primaria importanza come via di comunicazione per una parte del territorio qui considerato, in particolare per la località di Valle S. Giorgio, un tempo articolata nei due comuni di Val di Sotto e Val di Sopra, e per Rivadolmo.
Alimentato da una derivazione del Bacchiglione a Longare, in provincia di Vicenza, il Bisatto forma gran parte dell'anello fluviale che circonda il gruppo collinare euganeo e che per la sua navigabilità rappresentò per molti secoli un'arteria fondamentale per l'economia dell'area pedecoliinare e più in generale del territorio padovano. Per l'area estense, in particolare, il Bisatto, chiamato in passato anche Sirone o Bacchiglione, costituì un fattore decisivo di sviluppo economico. I "burci" partivano dal porto di Este, ubicato sotto la Porta Vecchia, e, trainati da cavalli, raggiungevano prima Monselice e poi Padova con il loro carico di prodotti agricoli, ma anche di manufatti, quali, ad esempio, le ceramiche. Oppure risalivano il Bisatto, seguendo il bordo occidentale degli Euganei, penetrando nel Vicentino, fino ad Albettone, località famosa per le fornaci di calce.

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È significativo che anche in antichi testi letterari compaia qualche cenno alla navigazione fluviale tra Este e le propaggini meridionali dei colli, all'incirca la zona compresa tra Lozzo, Cinto e Rivadoimo. In un testo teatrale cinquecentesco in lingua pavana, quella delle commedie di Ruzante, un personaggio esprime la sua ammirazione per il ponte di Rialto esclamando: è più bello "che no è el porto da Lozzo, né dal Bagno, e la Piombà".
La Piombà è la località in cui il Bisatto comincia a lambire l'unghia del monte Cero. Proseguendo il suo lento corso in direzione sud-ovest raggiunge l'abitato di Rivadolmo, ubicato ai piedi del monte Murale, e da lì, piegando in direzione sud-est, si avvia alla volta di Este.
In età tardomedievale la zona pedecollinare compresa tra la Piombà e il villaggio di Rivadolmo ricadeva sotto la giurisdizione del Comune di Calaone, che, come si è visto in un capitolo precedente, era proprietario anche della Val Calaona, la valle che si estendeva al di là del Bisatto. A Rivadolmo il comune euganeo era titolare di un pascolo di pecore che affittava a privati per periodi di tempo variabili. Nel marzo del 1459, ad esempio, il massaro di Calaone lo diede in affitto ad un certo Bartolomeo di Domenico per due anni a condizione che vi pascolassero, solo d'estate e non d'inverno, non più di 200 pecore. In cambio riscuoteva Lire 16 e la metà della lana "marzadega". Nel contratto di locazione erano indicate anche le coordinate topografiche del pascolo: la "posta" iniziava dal Vignale delle Coste di sotto verso Rivadolmo, e andando per Costa Bonella arrivava al ponte della Piombà.
Nel 1501 il medesimo pascolo fu affittato ai fratelli Ricio e Giacomo Bonato per cinque anni, con un aumento della sua "soffribilità": il numero delle pecore tollerato salì infatti da 200 a 350. 
Nell'estimo dei beni comunali di Calaone del 1519 si precisa che il pascolo si affittava "per L. 15 all'anno, e alcune volte Lire 18" e che quel denaro era destinato a comprare "cere ed oglio" per illuminare la chiesa parrocchiale di S. Giustina.
La presenza del pascolo comunale, che nel secolo XVII passerà nelle mani di privati, induce a credere che nell'area compresa tra Rivadolmo e la Piombà, una fascia che fa quasi da cerniera tra il monte e la palude, l'utilizzazione agricola del suolo fosse alquanto limitata e conseguentemente che l'insediamento umano non avesse dimensioni rilevanti. 
All'inizio del ‘400 vi esisteva una chiesuola dedicata a S. Fermo, ubicata nella contrada Costa Bonella, di cui però presto si perdono le tracce. 
La scomparsa della chiesa, di cui lo storico estense Isidoro Alessi riconobbe qualche vestigio a metà del Settecento, desta più di un interrogativo perché la rilevante distanza dell'abitato di Rivadolmo dalla chiesa parrocchiale di Calaone avrebbe dovuto favorire, a rigore, la sopravvivenza di un luogo di culto.
Non è possibile allo stato attuale delle ricerche dare una spiegazione alla mancata espansione di Rivadolmo in età moderna. Può esser dipesa, almeno in parte, dall'eliminazione della "posta di mulini" che vi esisteva all'inizio del secolo XV.
Nella prima metà del Cinquecento infatti un consorzio di proprietari veneziani, di cui facevano parte Alvise Cornaro e il fratello Giacomo, allo scopo di regolare un tratto del canale Bisatto, realizzò alcune opere idrauliche che comportarono la distruzione di un mulino natante in località Rivadolmo. 
Nel Cinquecento sembra declinare anche l'attività estrattiva che è invece ampiamente documentata per il secolo precedente. Dalle propaggini occidentali del Cero e del Murale si estraeva la scaglia, da cui si ricavava la calce mediante cottura nelle fornaci. Un documento del 27 dicembre 1407 menziona l'esistenza di alcune fornaci e uno del primo marzo 1427 cita esplicitamente il "porto della scaglia di Rivadolmo". Ancora: nel 1465 il Comune di Calaone diede in locazione ai fratelli Michiel e Giovanni Fusina per quattro anni una parte di strada pubblica in "contrà di Rivadolmo" per scavare scaglia per 5 ducati all'anno.
Nel Quattrocento dunque Rivadolmo è, anche per la vicinanza del Bisatto, un sito estrattivo di discreto interesse. Ma già allora, probabilmente, meno importante di quello esistente a Montebuso, quasi al confine con il territorio di Monselice. Anche questo, e la coincidenza è significativa, si trovava a brevissima distanza dal canale Bisatto. All'inizio del secolo XVII lo storico padovano Angelo Portenari affermava che da Montebuso "è stata cavata e si cava grandissima quantità di pietra bianca della quale posta nelle fornaci si fa calce".
Qui il diritto di estrazione della scaglia era stato concesso nel secolo XVI dal Senato veneto alla famiglia Salamon, che aveva la proprietà di un vasto latifondo compreso tra il Bisatto e il colle di Montebuso. La pietra estratta veniva caricata su piccoli natanti che attraverso la fossa Scagliara - il toponimo è più eloquente che mai - raggiungevano il Bisatto in prossimità di Monselice. 
La scaglia, però, non fu utilizzata soltanto per la produzione della calce. Nella prima metà del secolo scorso il materiale estratto nella cava Piombà, a due passi da Rivadolmo, servì alla sistemazione del fondo della strada Este-Montagnana.

 

2. Il trasporto dell'uva 
Rivadolmo non era comunque solo porto di imbarco di calce e di scaglia, ma anche luogo di transito. Era il punto in cui passavano su natanti uomini e merci che da Este (o da Padova) raggiungevano i pendii collinari e poi rifacevano il tragitto all'incontrario. 
Che Rivadolmo fosse un punto-chiave già nel basso Medioevo, lo conferma una pagina suggestiva del cronista padovano Rolandino relativa ad una delle terribili incursioni di Ezzelino da Romano nel territorio estense. 
Scrive dunque il cronista padovano che nel settembre del 1242 Ezzelino si portò con l'esercito a Este, dove devastò i raccolti e tutto il resto, tranne il castello. Ma, accortosi che una parte dell'area collinare era intatta, interpellato un barcaiolo (nauta) che conosceva quella zona, venne a sapere che l'esercito non poteva raggiungere quei monti se non passando per Rivadolmo. Allora fece subito costruire una chiusa o diga con frasche, pali e terra, e così il 15 settembre e i due giorni successivi fece passare tutti i soldati. E così furono distrutti alberi, vigne e tutte le coltivazioni fino a Baone (Et sic devastate sunt arbores et vinee et laboraciones cuncte usque ad Baonem).
Per Rivadolmo transitavano i cittadini padovani che andavano a villeggiare sui colli. Il giurista padovano Marco Mantova nella novella L'eremita (1525) racconta che era solito raggiungere in barca il suo podere, una abondevole e frutifera vignetta che aveva comprato "piu tosto a diporto principalmente che a futura speranza di molta utilità" e che era ubicata a pochi passi dal mulino di Val di Sotto. 
Per Rivadolmo passavano le derrate agricole provenienti da Valle San Giorgio, il cui territorio fin dall'età medievale aveva rivelato una spiccata vocazione per la produzione di uva, frutta e olio. All'inizio del Seicento lo storico Andrea Cittadella nella sua descrizione del territorio padovano a proposito di Val di Sopra scriveva: "Qui sono alquanto comodi li Bertolin contadini del luogo pratici di frutti et oglio che fanno di quelli monti, traspontandoli anco a Venetia". In verità l'esportazione di prodotti agricoli da Valle aveva una tradizione plurisecolare. Era già praticata almeno dal secolo XIII. Al 1271 data un contratto che stabiliva che i fittavoli dell'Abbazia della Vangadizza, che aveva estese proprietà a Val di Sotto e a Val di Sopra, dovevano inviare i canoni in generi a Este, passando per Rivadolmo.
Per secoli furono i natanti che solcavano le acque del Bisatto a trasportare l'uva e la frutta prodotta a Val di sopra e Val di sotto ai mercati di Padova e di Venezia. Il porto era in località Bomba, sotto la giurisdizione del comune di Cinto. Ce lo dicono i Capitoli con i quali la compagnia della villa di Cinto et Este intendeno accordare li barcaruoli per condure a Venezia le sue frutte et uva per l'anno 1580.
Recita infatti il primo capitolo: "Che li barcaruoli quali acceteranno questo carico siano tenuti cargare dite frutte et uve alla Bomba sotto Cinto, et a Este a sua spese et interresse, et quelle condurre a Venetia". 
Il trasporto fluviale sul Bisatto investiva dunque una straordinaria rilevanza per gli abitanti di Val di Sopra e Val di Sotto. Tant'è che, superando antiche rivalità, i due comuni tenevano congiuntamente le vicinìe in cui si stabilivano gli accordi con i barcaroli a cui affidare il trasporto dei loro prodotti. Ecco, ad esempio, quanto fu deliberato dai capifamiglia nella vicinia del 18 agosto 1723:
"Adì 18 Agosto 1723 in Val di soto Ridota la vicinia a loco solito vicino alla chiesa parochiale il comun di Val di soto et il comun di Val di sora uniti insieme con la presenza delii degani et homini delli comuni si acorda per suo barcarolo m. Zuane Careta da Este che posi acostarsi alla solita riva del canale dalla Bomba per cargare uva et fruti et altro per condure a Padova de tuta la montagna come poseso antico et giuspatronato per il prezo stabilito et dacordo che ogni uno che vorano metere Li sua roba in deta barca debano dare per sue mercede soldi vinti per ogni cao groso et li cai picoli per mità così dacordo con questo che deba costudire Li roba in deta barca che venirano consegnata procurando di andare al viazo a tempi debiti con questo che deba condure indietro le ceste et corbe vode et anco le persone senza alcun pagamento et in caso che il sudeto barcarolo non avese roba che li siano fato il nolo di ducati cinque vai lire 31 con pato che il deto barcarolo debano contribuire alla chiesa di Valle ducati dieci vai lire 62 per beneficio della medema. Io Pietro Prandato scrivan ho scrito la presente et afermo a quanto di sopra per tuti do li comuni così tengo iordine". 
Un altro prodotto che da Valle si inviava a Venezia era l'olio di oliva, che era impiegato nella lavorazione del sapone e della lana. Si trattava però di quantitativi limitati perché la produzione di Valle non poteva competere con quella di Arquà. Una statistica del 1787 attesta che a fronte dei 200 mastelli di Arquà, Val di Sopra ne forniva 15, Val di Sotto 10, mentre Calaone si fermava a sei.

Note:
Sulla navigazione nell'area estense si veda C. Grandis, Corsi d'acqua e navigazione. Appunti per una storia dell'idrografia estense in età moderna, "Terra d'Este", a. I n. 1, pp. 65-75. La citazione sul porto di Lozzo è tratta da M. Milani, Nuovi testi pa vani del ‘500: Il "Dialogo" di Rocco degli Ariminesi, in "Atti e memorie dell'Accademia patavina di scienze lettere ed arti," vol. LXXXIII, parte II(1970-71), Padova 1971,
Sul pascolo di Rivadolmo si veda la documentazione contenuta in AMCE, Liber Communis Caleonis n. 130, in particolare a c. 8 il contratto del 27 marzo 1459 che stabilisce che il locatario "possit pasculare tempore estatis et non hieme et non possit te tenere in dicto pascullo nisi pecudes ducentas", e più avanti la Locatio pa scui Rippeulmi del 20 novembre 1501: "affictatum fuit cum hoc quod non possint isti conductores tenere super dicto pasculo ultra pe cudes 350".
Si veda anche AMCE, Catastico 28, dove si cita l'Estimo dei beni comunali della villa di Calaon del 10 febbraio 1519 da cui risulta che Calaone era proprietario di un pascolo di pecore che si affittava "per L. 15 al l'anno, e alcune volte L. 18, qual denaro è destinato per comprar cere ed oglio per illuminar la chiesa ed il SS. Sacramento, la qual chiesa è juspatronato del N. U. Girolamo Pisani come Subentrato nelle ragioni del Duca di Ferrara
Le pecore non potevano essere condotte a pascolare sul monte. Un documento del 27 dicembre 1527 ci tato in AMCE, Catastico 30, riporta una denuncia "contro una persona per aver condotto uno sciamo di pecore sopra il monte".
Sulla chiesa di S. Fermo le informazioni più dettagliate sono in I. Alessi, Ricerche istorico-critiche delle antichità di Este, Padova 1776, p. 510. Al mulino natante di Rivadolmo accenna E. Menegazzo, Alvise Cornaro: un veneziano del Cinquecento nella terraferma padovana, in Storia della cultura veneta, t. 3 /11, Vicenza 1980, p. 530 n. 70.
Per lo sfruttamento delle cave di scaglia a Rivadolmo nel secolo XV si veda AMCE, Catastico 28 e Liber Communis Caleonis n. 130, c. 8 che dà notizia che il 4 aprile 1460 il Comune di Calaone diede in affitto per due anni a Giovanni Fassina una strada del comune per cavare scaglia per ducati 5 all'anno, e il 18 gennaio 1465 per quattro anni a Giovanni e a Michiel Fassina "una via per cavar la scaggia" (super qua via dicti conducto respossint et valent cavare seu cavari fa cere scaleas). Al documento del 1407 fa riferimento V. Lazzarini, Beni carraresi e proprietari veneziani, Milano 1949, p. 283. 
La citazione di Portenari è tratta da Della felicità di Padova, Padova 1627, pp. 66-67. Sulla concessione ai Salamon, rinnovata nel 1557, si veda C. Grandis, Un'opera di Tommaso Temanza in terra d'Este: il ponte sul Bisatto a Montebuso, "Terra d'Este", a. IV, n. 7, pp. 70-72. 
La notizia sull'uso della scaglia di Piombà per il fondo stradale è in G. Scarpa, Strade e agricoltura nel Veneto della Restaurazione, "Atti e memorie della Accademia di Agricoltura Scienze e lettere di Verona", a.a. 198889, serie VI, vol. XL, Verona 1991, p. 270. 
Il racconto dell'incursione di Ezzelino è in Rolandini Patavini Chronica a. 1200-1260, ed. Ph. Jaffé, Monumenta Germaniae Historica, i XVIIII vol. V, Hannover 1866, pp. 79-80. 
Sui beni dei Mantova Benavides a Valle S. Giorgio si veda C. Grandis, Una villa a Valle San Giorgio. Note d'archivio su villa Guidotti, Torta, Mantova Benavides, "Terra d'Este", a. VII n. 13, pp. 43-72. M. Mantova Benavides, L'heremita overo della Predestinatione, Venezia 1525. La citazione del Cittadella è tratta da Descrizione di Padova e suo territorio, Padova 1605, ms. BP 324 della Biblioteca Civica di Padova.
Per i rapporti con il monastero del la Vangadizza si veda C. Corrain, Alcuni registri di terratici ed affitti del monastero della Vangadizza, in "Atti e memorie del Sodalizio Vangadiciense", voi. I, 1972-73, Badia Polesine 1975.
I documenti sulle vicinie dei comuni di Val di sotto e Val di sopra sono conservati presso l'Archivio Parrocchiale di Valle S. Giorgio. 
La statistica sulla produzione di olio è in C. Grandis, Uomini e barche, navigazione e trasporto, in La riviera euganea, a cura di P. G. Zanetti, Pado va 1989, p. 132.
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